DISTURBI TRATTATI
PROBLEMATICHE PSICOLOGICHE
PROBLEMATICHE RELAZIONALI
- Problemi di coppia
- Psicoterapia individuale di coppia
- Problemi Relazionali
- Autostima
DISTURBI D'ANSIA
• Attacchi di panico con e senza agorafobia
• Ansia generalizzata
• Fobia sociale
• Disturbo post-traumatico da stress
• Fobie specifiche
• Ossessioni
• Ipocondria
• Dismorfofobia
L’Ansia è uno stato di paura, insicurezza ed incertezza rispetto ad una situazione vissuta come minacciosa. Il pericolo può venire dalla:
• paura di morire di morte improvvisa (infarto, ictus, incidente, ecc.),
• paura di perdere il controllo: la paura del gesto efferato, di impazzire, di arrossire, di perdere il controllo degli sfinteri, della guida dell’auto, degli spazi ampi e aperti, di sentirsi soli in mezzo alla folla, di non avere “via di fuga”, dell’altezza, di fare “brutta figura”, di bloccarsi (blocco della performance), e così via,
• relazioni che danno disagio: quando ci si sente inadeguato, in imbarazzo con persone che si percepiscono giudicanti e criticanti in modo negativo sul modo di essere e di operare. Questo è il caso di ciò che viene chiamata Fobia Sociale.
L’ansia può essere vissuta in forma generalizzata, quando è costante e sempre in “sottofondo”, oppure con attacchi di panico quando solo nella circostanza “spaventosa” esplode una crisi con il suo picco talmente forte per cui si vorrebbe scappare da sé stessi, ma da sé stessi non si può fuggire. Sono infatti i sintomi fisici che (nell’ansia generalizzata sono molto più lievi rispetto ad un attacco panico) la fanno da padrone, in quanto è la paura che domina e non siamo noi a dominare la paura. I sintomi sono diversi a seconda di chi li vive e tra i più comuni si trovano: tachicardia, sudorazione, vertigini, dolori addominali, nausea, ma anche confusione mentale, capogiri, sensazione di instabilità e sensazione di “essere fuori dalla realtà”.
Molto spesso quando si discute su temi riguardanti l’ansia, la paura ed il panico si parla anche di Fobia. Quando vi è una Sindrome Fobica (o Fobia)? Quando in una determinata situazione, circostanza, o oggetto, viene associato uno stato ansioso o di panico, in modo continuo e reiterato nel tempo.Tale associazione, d’altro canto, fa vivere anticipatamente aspettative d’ansia, rinforzando e riconfermando la paura. Per chi volesse approfondire il processo di costruzione di un problema psicologico, si rimanda all'e-book gratuito "Con una gabbia in testa".
PANICO: “DOV’È LA VIA D’USCITA?”
QUANDO LA VIA FUGA È L’UNICA SALVEZZA: LA CLAUSTROFOBIA
Sempre più frequente tra i clienti che richiedono una psicoterapia è la “paura” di non avere la via di fuga o, come variante, che la via di fuga sia troppa lontana.
Fuga da cosa?
Fuga dalla paura, dal panico di sentirsi in trappola e/o di soffocamento nelle circostanze più svariate; la fuga incarna, così, l’illusione di chi vive gli attacchi di panico: il poter fuggire da sé stessi, ma da sé stessi non si scappa mai!
Si può vivere la paura di sentirsi incastrati in situazioni concrete e fisiche ad es.:
- in autostrada perché non si può uscire quando si vuole;
- in auto quando si è ostacolati da altre auto che costringono a rimanere fermi nel traffico, negli ingorghi, o in coda al semaforo;
- nelle piazze affollate in quanto la moltitudine di persone impedisce di uscire dalla piazza, analogamente, quindi, ai concerti, alle partite allo stadio;
- al ristorante e/o pizzeria e/o pub e/o discoteca e/o cinema: in questi luoghi la via di fuga viene spesso percepita lontana;
- luoghi chiusi vissuti come angusti il cui esempio classico è l’ascensore.
Accanto a queste situazioni vi sono anche quelle psicologiche, ossia, quelle che fanno sentire l’obbligo di rimanere, di non poter scappare senza che niente e nessuno lo impedisca, o per buona educazione, o per non perdere il proprio turno, ad es.:
- colloqui importanti;
- sale d’attesa;
- code in banca, in posta, ecc.;
- visita medica o esami medici.
Come si può notare la claustrofobia “vissuta” è più ampia rispetto all’accezione divulgata che la intende come la paura degli spazi chiusi “al chiuso” e stretti; chi ne soffre può percepire come “chiuso” anche ambienti e luoghi all’ “aperto”, così come circostanze situazionali in presenza d’altri.
DISTURBI OSSESSIVO - COMPULSIVI
Disturbi Ossessivo Compulsivi sono una forma particolare di manifestazione della paura, in quanto, vengono messi in atto dei rituali per superare ciò che spaventa. I rituali sono dei pensieri, gesti, o azioni ripetuti con una certa sequenza, o per un determinato numero di volte e vengono messi in atto o in forma preventiva e/o propiziatoria in modo tale che non accada il temuto, oppure in forma riparatoria per eliminare ciò che spaventa.
Tra i rituali preventivi più comuni vi sono il controllo del gas, dei rubinetti, della chiusura delle finestre, delle porte, delle luci di casa, così come le portiere e i fari dell’auto, e tante altre forme diverse, mentre tra i rituali riparatori troviamo il lavaggio delle mani, ritornare più volte là dove si teme di aver investito in auto una persona, gettare oggetti o abiti, e così via. Particolari rituali sono quelli che servono per mantenere il “tempio pulito”, ossia, pulire la casa come uno specchio per ore e se appena entra un piccolo sporco - la paura - iniziare tutto da capo.
DUBBIO OSSESSIVO
Il dubbio ossessivo consiste nel continuare a domandarsi se “si è fatto bene, o se si è fatto male”, se “si è fatto giusto, o si è sbagliato” su un’azione compiuta, oppure un gesto, oppure una parola detta. La mente va, così, alla continua ricerca della risposta migliore al dubbio, risposta che, a sua volta, alimenta altre domande, in un gioco senza fine che scatena l’irrequietezza che fa sentire instabili. E' questa ricerca infinita ed estenuante della soluzione che liberi per sempre dal vortice dei pensieri che crea ansia. Tale ansia va intesa come paura di perdere il controllo di sè, della propria mente: chi è imprigionato nell'ossessione del dubbio percepisce che è quest'ultimo a "dominare" la mente e che essa non riesce a trovare la razionalità arginante dei pensieri. La conseguenza è scambiare il contenuto dei pensieri/dubbi/domande come "causa" dell'ansia/confusione: è le ricerca della risposta definitiva che mantiene l'insicurezza perchè più si cerca, più si ricercherebbe, perchè, in altre parole, la risposta trovata non è mai soddisfacente.
L'apprensione molto spesso è percepita, grazie ai sintomi simili, come un'ansia. Non è possibile d'altro canto considerarla ansia in senso stretto, l'apprensione è un dubbio ossessivo portato all'estremo che va vivere un sentimento di impotenza. Esempio - paura della perdita del lavoro: chi vive questo timore si pre-occupa (in anticipo) senza avere segnali precisi, specifici di un futuro che può avere, invece, risvolti positivi e di continuo si chiede: "e se dovesse andar male?", "e se succedesse qualcosa?". Si crea in questo modo un'apprensione per cui rischia di perdere la serenità che gli consente di lavorare al meglio; rischia, quindi, di costruirsi propro lui il motivo per cui ritrovarsi senza lavoro.
IPOCONDRIA
O PAURA DELLA MALATTIA?
Spesso l’ipocondria sia nel gergo comune che dagli addetti ai lavori viene intesa come paura della malattia.
Sono la stessa cosa?
La risposta corretta è che sono due modi diversi di vivere la paura della malattia. Tuttavia talvolta possono essere vissute come sovrapposte, proprio perché nel sentire un problema psicologico non vi sono mai contorni netti e definiti: le variabili sono sempre molteplici e le loro iterazioni assumono sfumature uniche per ogni persona.
In che cosa si differenziano?
Lo snodo centrale è che l’ipocondria è attivante, mentre la paura della malattia è bloccante.
L’ipocondriaco è colui che si “mobilita” attraverso indagini mediche, esami clinici, colloqui con i medici, sentire più pareri; le frasi più usuali sono “sarà anche un luminare… ma non ha capito il mio problema”, oppure “secondo me questi esami sono sbagliati… li devo rifare”, oppure “…è meglio che faccia un controllo più approfondito” e così via. L’ipocondriaco è dentro alla malattia, la guarda in faccia, la ingigantisce, la stravolge, in altre parole la malattia è il suo pensiero se non esclusivo, dominante, ridondante, ripetitivo al punto da creare un’ossessione. Il timore più grande che vive è quello della malattia grave pur non essendone mai stato colpito, perché una malattia importante la vive con il terrore di subirla per tutta la vita impedendone il normale svolgimento. Il controllo, di conseguenza, del proprio corpo e dello stato di malessere (e non di benessere!) è esasperato a livelli alti: palpazioni tattili per scoprire nuovi tumori, passare alla lente di ingrandimento ogni macchia e ogni nevo della pelle, contare i battiti cardiaci, misurarsi la pressione sanguigna, e chi più ne ha più ne metta. La ricerca continua di soluzione (talvolta in modo frenetico) viene a costituire quel vortice da cui non riesce più ad uscire fino a che tale ricerca diventa la “malattia”.
Chi ha la paura della malattia, invece, è colui che al solo pensiero o ipotesi si blocca, si ammutolisce, si chiude in se stesso, si paralizza. Evita il problema, lo minimizza, non si sottopone ad indagini mediche se non costretto da altri; i suoi pensieri sono “…cosa vuoi che sia, non è niente…”, “…è meglio che pensi ad altro…”, “…ci andrò più avanti…” (per non andarci mai). Chi ha la paura della malattia vive una fobia proprio perché la evita ed evitare è (i)l’(non)approccio alla malattia, sia su di sé che sugli altri intorno a lui. Il “pauroso” è spaventato dalla paura di morire, tanto dalla malattia grave, quanto da quella meno importante perché può celare il pericolo.
E chi la malattia l’ha vissuta? Un infartuato, chi ha subito un ictus, chi ha sconfitto un di tumore o un’altra malattia su quale versante si collocano? La reazione che una persona può avere dipende da quanto forte ha percepito lo spavento e dalla percezione che ha nelle proprie risorse, valori, pensieri sulla vita. Se questa persona è orientata al controllo, al capire, al sapere tenderà verso una forma ipocondriaca della propria salute; d’altro canto se la persona ha una tendenza delegante e fatalista del proprio vivere tenderà alla “paralisi” tipica della paura.
BLOCCO DELLA PERFORMANCE
La performance è quella prestazione psico-fisica che varie situazioni e/o circostanze richiedono: lo studio con la scuola, la gara con lo sport, suonare in un concerto, lavorare indipendentemente che sia un lavoro intellettuale o manuale. Chi ha un blocco nel fare operazioni che ha sempre fatto, si ritrova a provare sensazioni legate all'ansia, non si sente più all'altezza, si sforza di liberarsi dalle "catene" mentali, ma più si impegna, più non riesce a divincolarsi, bloccandosi sempre più. Lo studente apre il libro e non riesce a leggere, oppure apprende talmente tante nozioni che non sa elaborarle per sostenere la prova; il dirigente che perde di vista il coordinamento del lavoro; il professionista in preda alla paura del successo. Sono solo alcuni dei numerosissimi esempi possibili e tutti sono accumunati da un blocco totale o parziale che crea crisi personali profonde perchè la persona rimane ferma, non trova le forze per reagire, vive l'impotenza.
DEPRESSIONE
Non sono i fatti in sé a preoccuparci, ma il nostro punto di vista riguardante i fatti stessi. Parafrasando Epitteto si ha la seguente domanda: sono gli eventi in sé a creare il rischio depressivo, oppure la dimensione psicologica, emotiva e cognitiva di ognuno? La reazione agli eventi che accadono è sicuramente il percorso che conduce al “vedere nero”, all’“umore giù”, all’apatia, alla “mancanza di motivazione”.
Da cosa dipende il punto di vista che ognuno ha di ciò che accade? Dal proprio vissuto, dal contesto sociale, ambientale, situazionale, dalle attribuzioni di senso e di significato, dai propri principi e valori. Per fare qualche esempio la rottura di una relazione sentimentale, una bocciatura, un licenziamento non sono la causa della problematica depressiva, piuttosto lo sono la percezione, o meglio l’atteggiamento psicologico di fallimento, di sconfitta, di perdita (anziché di opportunità) attribuito all’evento in quanto tale.
Tale atteggiamento psicologico che, va sottolineato orienta sia la dimensione biologica che comportamentale, può essere cambiato con un intervento sulla percezione che si ha di sé, di sé in relazione agli altri ed anche di sé in relazione al contesto in cui si vive.
Solo agendo sulla credenza di non riuscire, sulla paura di fallire, sulla paura di non essere capace, sulla paura di non piacere, sulla stima bassa di sé, sulla rabbia di subire, sulla rabbia che fa sentire impotenti, si potrà sconfiggere il “male oscuro”.
PROBLEMI DI COPPIA
Cosa s’intende per coppia? Quando due persone sono in relazione tra loro mediante un legame affettivo-amoroso. Siano coppie che esercitano la convivenza (matrimonio e “coppie di fatto”) sia che i membri della coppia vivano separatamente, così come quelle clandestine/nascoste per vari impedimenti.
Molto spesso (troppo?) si fa confluire nel tradimento l’ostacolo più grande tra le due persone perché porta la coppia su un percorso di totale messa in discussione: il “tradito” non solo dovrebbe ritrovare fiducia nell’altro, ma ancor prima dovrebbe compiere la scelta se ridare fiducia; mentre al “traditore” spetta il compito di “recuperare” quel rapporto che tutto ad un tratto non viene più visto come “scontato”. Fermo restando che il tradimento non sia la “spinta” alla separazione!
I problemi di coppia possono anche riguardare l’esigenza di risolvere piccoli o grandi conflitti, oppure innescare un processo di decisione che preveda o la continuazione o la separazione per ragioni di “incomprensione”, “incompatibilità”, “malesseri”.
I dissapori generano rabbia, delusione e frustrazione perché vanno ad intaccare (verso il basso) il valore di sé (di me) che l’altro fa sentire. Le dimenticanze, le svalutazioni, il minimizzare o l’ingigantire, le puntualizzazionied il rinfacciare sono tutte azioni che minano con il tempo il sentirsi stimati, desiderati, voluti (in una parola amati!) per cui le basi della relazione possono vacillare.
Non può trovare uno spazio secondario nel vivere la sofferenza l’abbandono (da parte del partner) quello improvviso, complicato, sofferto, non compreso. Un abbandono con queste modalità denota un “amore difficile”, un rapporto che non ha mai funzionato come avremmo desiderato, pieno di complicanze, “tira-e-molla” e di speranze che “prima o poi cambierà, se sarò più carino/a e disponibile”.
Gli “amori difficili” (o impossibili?) danno molta sofferenza perché creano un’illusione molto forte di superare le impasse come nessun’altra relazione, grazie ai tentativi di salvare, proteggere, accudire l’altro. Questi tentativi portano, altresì, alla disillusione perché sono tutti atti rivolti solo verso il partner, mettono in secondo piano i bisogni della persona che li compie (i tentativi) e perciò si sentirà sempre più sola.
PSICOTERAPIA INDIVIDUALE DI COPPIA
PSICOTERAPIA SULLA COPPIA, NON NECESSARIAMENTE CON LA COPPIA
La scelta di intraprendere una psicoterapia di coppia incontra spesso parecchie difficoltà, sia perché due persone dovrebbero prendere la decisione, sia perché esse dovrebbero affrontare insieme, confrontandosi, un percorso.
La condizione auspicabile di intervento prevede che entrambi i membri desiderino partecipare perché insieme sentono la necessità di crescere e di uscire da una situazione di stallo. In questa situazione, ideale per la terapia, sarebbero permessi passaggi più “agevoli” che farebbero rinascere la coppia in termini emotivi e comunicativi.
Tanto quanto questa condizione è ideale, tanto quanto è poco frequente.
I motivi che possono indurre una coppia a rivolgersi all’esterno sono sempre spiacevoli, feriscono, obbligano ad una messa in discussione, possono far sentire a disagio. Tra i vari motivi, difatti, che potrebbero indurre a richiedere una consulenza di coppia possiamo trovare:
- i conflitti, le chiusure, le arrabbiature, le piccole e grandi aggressività;
- i tradimenti di varia natura: platonici, fisici, da “social network”;
- le svalutazioni, le lamentele, i rinfacci, le recriminazioni;
- la mancanza di attenzioni, la negazione dell’espressione dell’affetto, il rifiuto della condivisione e della partecipazione;
- le opinioni non espresse, la delega delle decisioni, l’assenza di propositività.
Si intuisce come queste problematiche possano conseguentemente scatenare in uno dei due partner ritrosia, resistenza, mancanza di convinzione, rifiuto ad un “lavoro psicologico” insieme al/alla compagno/a.
Chi usualmente è più riluttante?
Chi sente meno il problema di coppia, chi pensa “tutto sommato va bene così”, chi ha difficoltà personali a mettersi in gioco. Ed è proprio qui lo snodo centrale: la richiesta di terapia (ossia di cambiare la “staticità” della relazione) avverrà sempre dal partner che subisce le impasse di coppia.
Usualmente le richieste più frequenti che chi vive la sofferenza fa alla psicoterapia sono di:
- far capire all’altro/a il dolore,
- cambiare il partner che non “vede” il problema.
Il/la coniuge, però, non sente il problema e sarà ben poco disponibile al cambiamento di sé, così come, ad intraprendere una terapia che molto spesso viene rifiutata; mentre se dovesse parteciparvi, la boicotterà, facendo sentire l’altro/a lo/la “sbagliato/a”.
Chi vive il problema è anche chi vive “l’impotenza” di sentirsi in trappola, paradossalmente è chi detiene le capacità di cambiamento, da una parte perché ovviamente ne ha la motivazione, dall’altra perché ha la capacità di messa in discussione, la stessa capacità che fa emergere la difficoltà, piuttosto che nasconderla.
La psicoterapia di coppia può così essere “individuale”, ossia agire solo con chi “sta male”, per proporre ed ottenere comportamenti, atteggiamenti, risposte nuovi e più funzionali alla interazione a due.
PROBLEMI RELAZIONALI
Vi sono relazioni che si vivono ogni giorno che, a volte, possono dare un malessere, si pensi alle relazioni con i colleghi di lavoro, a quelle parentali e a quelle amicali. Questi malesseri possono andare in due direzioni: o non ci si sente all’altezza degli altri, di reggere il loro confronto, oppure il pensare, il sentire che le persone che si frequentano maggiormente su noi emettono giudizi negativi, “ce l’hanno con noi”, o sparlano, o addirittura ci escludono. Avere la sensazione di subire e di non riuscire a farsi valere, a ribaltare “la partita”, fa sentire anche impotenti e ciò può portare a vivere le relazioni con gli altri in modo sempre più bloccato, difficile e diffidente. Le relazioni diventano così un problema e perdono il loro aspetto di piacere. Facciamo qualche esempio.
- Un collega di lavoro che “scherza un po’ troppo”, scarica il lavoro di sua competenza mettendoci in difficoltà sul nostro operato, fa combutta contro noi; analogamente un responsabile che in modo arrogante ed aggressivo “impartisce gli ordini”, o, al contrario, che non “dà ordini” (forse è peggio?), o che fa favoritismi.
- La relazione tra genitori e figli in età adulta, ossia, problemi che non derivano da aspetti legati alla crescita o all’educazione del bambino, ma i nodi irrisolti, o nuove impasse che danno distanza, silenzi, oppure, addirittura scontri e rotture. I rapporti tra genitori e figli costituiscono i rapporti fondamentali della vita con cui ci si deve “fare i conti” anche quando non si vorrebbe, anche quando si pensa di averci messo “una pietra sopra”.
- Quando l’amico/a di sempre quello/a “storico/a”, “il fratello/la sorella mai avuto/a” non c’è più per noi, cambia stile di vita, preferisce altre compagnie, ci esclude, ci tratta “come un conoscente” senza una ragione evidente, quasi improvvisamente. La sua “freddezza”, il suo distacco ci ferisce, al punto da segnare un “prima e un dopo” per cui ci pervade una delusione verso tutte le altre relazioni amicali, andando a nuocere le buone relazioni che ci sono già o quelle future.
AUTOSTIMA
"Quando mi trovo in quella situazione mi sento bloccato/a, vorrei dire tante cose ma non mi esce niente... sento il caldo che mi sale dal collo... non riesco nemmeno a guardarlo/a in faccia..." sono le espressioni usuali di chi si trova in una circostanza connotata da forte imbarazzo e disagio.
Tale circostanza potrebbe essere avvicinarsi ad una persona che piace e con cui giocare chance affettivo-amorose, così come nel lavoro con colleghi, con un gruppi di amici, in classe a scuola, con i professori e così via: ogni situazione che comporti un confronto diretto o indiretto con gli altri.
Altrettanto in modo usuale chi si trova a vivere questi disagi riferisce queste parole: "non ho autostima, penso di valere niente, non valgo abbastanza ecco perchè non riesco ad affrontare". La percezione di un basso valore di sè è l'effetto di non riuscire ad "essere sè stessi", di non esprimersi come si vorrebbe, del sentirsi "vittime" della paura del dolore dato da un rifuto o da un secco "no". E' l'effetto non la causa: se si pensasse "veramente" di non valere, non si cercherebbero le relazioni!
L'autostima, d'altro canto, non coinvolge soltanto le relazioni in cui si deve fare "bella figura", ma qualsiasi attività "umana" che chieda di mettere in gioco abilità, intelligenza, non solo nei termini del "saper fare", ma e soprattutto, nei termini del "saper essere".
Quando si pensa al valore di noi, si dovrebbe tenere bene a mente che l'autostima non si eredita, si costruisce (G. Nardone).
Per un approfondimento si rimanda la libro/e-book L'autostima non esiste. Come liberarsi di uno degli ostacoli più grandi che l'uomo si sia costruito. Ed. Youcaprint (2014)
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